L’immagine che documenta

5 min read

di Simone Luca Pierotti e Alessandra Rosabianca (fotografie di Francesca Mangiatordi)

Nel 2007 lavoravo per un fotografo dell’agenzia Magnum, ero un factotum, stampavo, cucinavo, sistemavo gli archivi e qualche volta seguivo il “principale” quando andava a fare delle fotografie per qualche rivista. In quel periodo vivevo a New York dove nell’ambito del fotogiornalismo, tra i giovani fotografi che frequentavo, c’era la corsa per riuscire a trovare il progetto d’impatto e la foto che cogliesse l’attimo. Questo è sempre stato così, specialmente negli anni in cui la fotografia era un lavoro artigianale che richiedeva competenze specifiche, e le immagini che apparivano nelle testate più note erano l’unico commento visivo alla contemporaneità.  Ricordo molto bene il giorno in cui incalzai il mio capo con una domanda un po’ provocatoria a bruciapelo: “… ma secondo te, in una guerra, sono più utili i fotogiornalisti o i medici?” Lui mi rispose: “i fotogiornalisti; loro documentano la storia perché questa non si ripeta…”. Ammetto che nonostante provassi una fascinazione per la vita avventurosa del fotoreporter, questa risposta non mi convinse del tutto. Quale commento ad un’affermazione del genere oggi?

In queste settimane, le immagini fortissime e grammaticalmente perfette di professionisti molto noti nel settore, si sono mescolate al flusso di informazioni e fotografie prodotte da medici e infermieri, spesso appassionati di fotografia, che hanno vissuto gli attimi più drammatici dentro le trincee. I fotografi di questi scatti sono stati quindi, narratori della propria storia, vivendo e fotografando l’evento dall’interno. La prima immagine che abbiamo visto sui giornali è stata quella della Dott.ssa Francesca Mangiatordi, che ha immortalato una sua collega distesa su un tavolo dopo un turno di lavoro. Francesca è un medico e appassionata di fotografia, non è una fotogiornalista ma nel giro di poche ore le sue immagini sono diventate delle icone nel racconto di questo evento.  Abbiamo trovato la dinamica della nascita e della diffusione di queste fotografie, perfettamente in linea con il nostro percorso. Uno degli aspetti di Photovoice Project è quello di dare, a chi vive situazioni di complessità, uno strumento immediato per narrare la propria storia e creare advocacy. Per questo abbiamo deciso di intervistarla:

Come nasce la passione per la foto e cosa rappresenta per lei?

«Ho iniziato a fotografare quando mi sono trasferita a Cremona dalla Puglia quattro anni fa, prima sono arrivata io a febbraio e poi la mia famiglia mi ha raggiunto. Durante i mesi in cui ero sola ho frequentato un corso base di fotografia. Non pensavo che dietro le immagini ci fossero fotografi con un bagaglio culturale immenso. Ho scoperto una letteratura enorme.»

Essere una fotoamatrice significa avere uno sguardo attento, come se le sua macchina fotografica diventasse parte di sé e del proprio modo di osservare la realtà. Se sì, in che modo la fotografia ha cambiato il suo modo di guardare il mondo?

«Con la fotografia effettivamente ho imparato a osservare con molta attenzione, a osservare l’umano e i suoi comportamenti, le emozioni. Molte volte mi è capitato di sedermi in piazza qui a Cremona e guardare le persone anche per ore. Il mio lavoro di medico mi porta ad essere sempre attenta ad osservare i pazienti, molti sintomi sono visibili, e con la fotografia ho affinato questa attitudine.»

Scattare la foto della sua collega infermiera è stato per lei un gesto istintivo o ragionato?

«È stato istintivo. Volevo fermare quel momento, volevo ricordare a posteriori quei momenti di grande prova sia fisica che emotiva. Tendiamo a dimenticare i piccoli episodi e con quella foto volevo ricordare a me stessa quanto eravamo provati.»

Si immaginava che avrebbe avuto così tanta risonanza?

«Davvero non immaginavo che avrebbe avuto una risonanza del genere. Quando la riguardo non riesco a soffermarmi più di qualche secondo, devo per forza reprimere le lacrime.»

Quali pensieri e quali emozioni si nascondono in quella foto?  

«In quella foto c’è tutta la rabbia, lo sconforto, l’impotenza davanti a qualcosa più grande di noi, ma nello stesso tempo c’è forza, umanità, tanta umanità.»

Se la macchina fotografica fosse un megafono, cosa vorrebbe far sapere al mondo?

«Cosa vorrei gridare? Non siamo eroi, siamo operatori che ogni giorno svolgono il proprio dovere. Eravamo operatori prima del 20 febbraio e lo saremo domani. Non mi piace la definizione eroi, non abbiamo dei super poteri, siamo persone con grande senso del dovere, quello sì. E lo abbiamo dimostrato proprio in questo momento di grande necessità, nessuno si è tirato indietro, anzi gli infermieri, gli oss, i tecnici hanno fatto dei turni massacranti, sacrificando se stessi e il tempo da dedicare alla propria famiglia.»

La fotografia della Dott.ssa Mangiatordi crea un cortocircuito nel sistema iconografico del classico fotogiornalismo d’autore. L’immagine diventa una finestra che ci permette di entrare nel quotidiano di una persona che vive la storia dal di dentro, e questo diventa il valore aggiunto fondamentale. Non importa se la fotografia è tecnicamente perfetta nei suoi dettagli, è la sua genesi che diventa documento, insieme a quello che racconta all’interno della sua cornice. In questo caso il fotografo è il medico, e come tale ci permette di avere un punto di vista autorevole, creando un sentimento di empatia e forte connessione con l’attimo vissuto, ed è proprio nella spontaneità dello scatto che troviamo l’autenticità della testimonianza.

home